Psicologia dell’invecchiamento
DR. ANTONIO PULERÀ
Nel contesto ospedaliero e principalmente nel reparto di Geriatria, grazie all’opportunità datami dal Direttore Dott. Mario Felici, ho potuto concludere diverse ricerche che spero siano state di aiuto agli operatori sanitari nel miglioramento dei rapporti con i pazienti e familiari.
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Raccontaci qualcosa di te... Mi occupo principalmente di psicologia dell’invecchiamento. Oltre alla laurea in Psicologia Clinica ho un Master in Neuropsicologia e una laurea in Scienze dell’Educazione e della Formazione. Nel contesto ospedaliero e principalmente nel reparto di Geriatria, grazie all’opportunità datami dal Direttore Dott. Mario Felici, ho potuto concludere diverse ricerche che spero siano state di aiuto agli operatori sanitari nel miglioramento dei rapporti con i pazienti e familiari. Le aree di ricerca hanno riguardato, a partire dal 2010, temi come la motivazione, la comunicazione medico-paziente, stress e strategie di coping ecc. ecc. In definitiva il mio obiettivo è quello di far capire come la psicologia applicata alla medicina possa aiutare non solo i pazienti e i loro familiari, ma anche e in certe occasioni soprattutto, i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari in genere. Il lavoro di prendersi cura dell’altro è uno tra i mestieri a forte impatto emotivo e i livelli di stress raggiungono, a volte velocemente, picchi molto alti. Cerco, insomma di prendermi cura di chi cura. Ho tre figli, mi piace leggere libri di fantascienza e da giovane ho fatto il maestro di tennis, ma ora preferisco una passeggiata nei boschi. Puoi illustrarci in cosa consiste concretamente la tua ricerca? Prendiamo per esempio uno degli elementi più controversi emersi dalla ricerca: sentirsi un peso per gli altri. Se compariamo i dati della sclerosi multipla e della reumatologia vediamo che questo sentimento è molto maggiore nei primi che nei secondi. Tutt’e due le malattie sono malattie invalidanti e impegnano il paziente per un lungo periodo di tempo. Ma perché essere un peso per gli altri passa da essere considerato uno dei tanti problemi acquisiti nelle malattie reumatologiche a diventare un problema importante per i malati di sclerosi? Dare una risposta basata solo sui sintomi delle due malattie non ci aiuta a strutturare una medicina orientata alla persona, perché possiamo trovare che il disagio percepito dal paziente sia lo stesso per differenti livelli di invalidità, vale a dire che il disagio percepito da tutt’e due le tipologie di pazienti può essere lo stesso anche se sono presenti differenti livelli di invalidità, oppure avere differenti livelli di disagio per uguali livelli di invalidità. Questo ci ha permesso di capire che il sintomo è sicuramente un elemento importante, ma se vogliamo passare da una medicina che cura l’organo a una medicina che cura la persona dobbiamo prendere in considerazione il suo illness, cioè ciò che rappresenta l’esperienza soggettiva dello star male, vissuta dal soggetto malato sulla base della sua percezione del malessere sempre culturalmente mediata. Quale ricaduta hanno i risultati della ricerca, anche a lungo termine, sulla cura e l’assistenza dei pazienti? Facendo sempre riferimento all’esempio precedente pensiamo all’assistenza infermieristica: al momento del ricovero, avendo somministrato il test, possiamo ricavare la mappa della dignità del paziente e a quel punto attivare procedure che mantengano il più possibile l’autonomia sollecitando il paziente stesso, a far da sé, o aiutandolo solo in occasioni veramente difficili. In questo modo otterremo sicuramente la collaborazione del paziente nella condivisione della cura peraltro sostenendo il suo senso di dignità. A mio avviso anche il medico può trarre informazioni importanti dalla mappa della dignità di una persona, per esempio nella prescrizione di farmaci che aiutino il paziente a far fronte a dolore (come fonte di invalidità e quindi di sentirsi un peso) o per il controllo dell’ansia o dell’umore. Possiamo quindi ipotizzare che un approccio di assistenza e di cura basato sul valore della persona piuttosto che orientato all’organo malato, possa far aumentare l’efficacia della cura stessa. Quali sono gli aspetti positivi e negativi che hai incontrato nel tuo lavoro di ricerca? Come aspetto positivo direi che è la ricerca stessa; poter capire come funziona la mente in circostanze a volte estreme, mi affascina. Come elemento negativo, la diffidenza delle persone a sottoporsi ai test, ma questo è umanamente comprensibile. Colgo l’occasione di ringraziare tutti i pazienti e i loro familiari che si sono sottoposti ai test dando a noi ricercatori materiale di un valore immenso. Come definiresti i rapporti che hai costruito all’interno del dipartimento/struttura/reparto presso il quale hai operato (con pazienti, personale medico e paramedico, altri)? Semplicemente fantastici. Ho trovato molta collaborazione in qualsiasi reparto, anche se per un medico o un infermiere non è facile interagire con uno psicologo. C’è la credenza popolare che in qualsiasi momento tu li stia psicanalizzando! Posso assicurare che non è così. Un ringraziamento importante va alle associazione dei malati: l’AISM di Arezzo, l’ANED di Arezzo e l’AMRAR, senza il loro contributo non avrei avuto la possibilità di crescere come ricercatore. Quale importanza ha per te la ricerca clinica nella pratica medica quotidiana? In questi due anni ho avuto modo di partecipare a due congressi nazionali della FADOI, la federazione nazionale dei medici internisti, ho sentito parlare di medicina della complessità e del caos. Le definizioni di tali contesti clinici sono caratterizzate dalla scarsa o dalla totale mancanza di riferimenti scientifici per la cura dei pazienti cronici e anziani. La ricerca ci offre l’opportunità di spostare il confine tra il noto e l’ignoto a vantaggio della salute di tutta l’umanità. Che significa fare ricerca clinica ad Arezzo e al “San Donato”? Significa poter contare su una schiera di professionisti che sentono il bisogno di crescere, di fare rete, con l’obiettivo di dare al paziente il meglio, anche se questo non può accadere sempre. Poter integrare le visioni di molti specialisti significa poter curare la persona sotto un punto di vista più ampio e in relazione anche ad aspetti psicologici, sociali e culturali. Quali sono le tue aspettative al termine del lavoro di ricerca? Ho sempre creduto che siano tre le attività che un ricercatore, nella mia posizione, debba poter sviluppare e cioè: la ricerca, la formazione e la clinica. Attraverso la ricerca ho la possibilità di conoscere, con la formazione la possibilità di trasferire le mie conoscenze ad altri e condividere le opinioni altrui, con la clinica la possibilità di intervenire positivamente nelle problematiche di chi si rivolge a me per un aiuto. Al momento, insieme al Dott. Felici e al gruppo di Arezzo, stiamo facendo formazione ai medici della FADOI di tutta Italia. Siamo stati invitati al Niguarda di Milano e in autunno andremo in Emilia. Successivamente sono in programma dei corsi Macroregionali nel nord, nel centro e nel sud dell’Italia. Per quanto riguarda la clinica quella viene applicata tutti i giorni presso il reparto di Geriatria dell’Ospedale di Arezzo. Nel futuro andremo avanti occupandoci questa volta del familiare che si prende cure del malato. Visto che un paziente non entra mai solo nella malattia, ma viene naturalmente accompagnato dai familiari, crediamo sia opportuno che la presa in carico debba essere più ampia e quindi, sostenere anche il familiare che si prende cura del malato presso il proprio domicilio.